FIGLI,LA PACCHIA E' FINITA

17 settembre 2020

NESSUN MANTENIMENTO AL BAMBOCCIONE CHE NON VUOL LAVORARE

 

La Suprema Corte di Cassazione, finalmente con sentenza n. 17183/2020, ha statuito che al figlio che non abbia seguito con profitto un corso di studi e che non abbia neppure reperito una occupazione stabile che gli consenta di mantenersi NON E’ DOVUTO l’assegno di mantenimento.

La Suprema Corte ha finalmente deciso di dare una stoccata finale ai cosiddetti “bamboccioni”, quei figli, un po’ poltroni, che riposano sugli allori cullati dall’assegno di mantenimento di papà e che non si siano attivati per reperire una occupazione.

Gli ermellini introduicono la prima particolarità di questa pronuncia:

non già un lavoro che si attagli agli studi svolti o che corrisponda alle aspirazioni del figlio, bensì qualunque lavoro!

La seconda novità sta nel fatto che Cassazione non si è fermata qui: ha statuito, infatti, che anche i rampolli che appartengono a famiglie abbienti abbiano lo stesso trattamento.

Pertanto, la Cassazione, finalmente avvedendosi dell’evidente ingiustizia di vedere dei genitori tenuti a mantenere a vita i figli, benché scansafatiche o semplicemente troppo pretenziosi nella ricerca di occupazione, ha sancito il venir meno dell’obbligo di mantenimento, laddove il figlio terminati gli studi non si rimbocchi le maniche e reperisca un lavoro qualunque in tempi brevi. 

Solo in Italia si mantiene un figlio fino a trenta anni.

La Cassazione chiede un’inversione di rotta per passare dal principio «del diritto a qualunque diritto» al concetto di dovere, come impone l’evoluzione sociale.

Finiti gli studi, siano quelli liceali, la laurea triennale o la specialistica, un figlio ha il dovere di trovare un’occupazione e rendersi autonomo. Senza coltivare velleità incompatibili con il mutato mercato del lavoro. Perché l’assegno di mantenimento ha una funzione educativa e non è un’assicurazione.

La Cassazione, supera anche il giro di vite affermato in passato stigmatizzando il comportamento del “bamboccioni” con i capelli grigi.

Con la sentenza 17183, i giudici affermano l’obbligo del figlio di attivarsi per cercare un lavoro qualunque per rendersi autonomo, in attesa di un impiego più aderente alle sue aspirazioni. Perché non può pretendere «che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore».

Cambio di passo da ogni diritto al dovere

La Suprema corte chiede un cambio di passo per passare dal principio del «diritto ad ogni possibile diritto» al concetto di dovere.

Dall’assistenzialismo all’autoresponsabilità, come impone l’evoluzione della nostra società.

Viene così respinto il ricorso di una madre che contestava la scelta della Corte d’appello di revocare l’assegno, versato dall’ex marito, in favore del figlio, un trentenne professore di musica precario, e di revocare anche l’assegnazione della casa coniugale.

I giudici territoriali facevano, infatti, notare che, ormai in ogni paese del mondo si dà per presunta, salvo l’esistenza di deficit, l’indipendenza economica a trenta anni, meno in Italia. Né la mancanza di un lavoro, in alcuni momenti storici, può equivalere all’impossibilità di mantenersi da soli.

La disoccupazione va superata con l’impegno

La disoccupazione può riguardare, infatti, anche persone più avanti con l’età. Come era avvenuto all’ex marito della ricorrente che, a sessanta anni, chiuso il negozio di ferramenta, era tornato a vivere dall’anziana madre. Senza che, per questo, ci sia, a suo, favore un obbligo di mantenimento da parte della genitrice: altrimenti si parlerebbe di copertura assicurativa. Diverso è l’obbligo alimentare che vale a vita tra congiunti ed è reciproco.

Il figlio della coppia lavorava saltuariamente come supplente, con redditi modesti ma significativi: circa 20 mila euro l’anno in media, e anche la coabitazione con la madre era sporadica perché il suo lavoro lo portava in varie provincie.

Per i giudici era dovere dell’ex ragazzo, ormai uomo, «ridurre le proprie ambizioni adolescenziali» cercando un modo per mantenersi. Un risultato che dipende dall’impegno speso per incrementare le supplenze o integrare le entrate con ogni opportunità disponibile.

Chiude i cordoni anche la famiglia ricca

Ma la Cassazione, non esclude il diritto all’assegno di mantenimento solo quando la famiglia non versa in floride condizioni economiche. Anche i genitori facoltosi possono chiudere i cordoni della borsa, quando il figlio abbia compiuto la maggiore età e terminato il suo corso di studi. Se è brillante e vuole proseguire può puntare ad una borsa di studio o darsi da fare per arrotondare il magro bilancio.

Capacità di lavorare a 18 anni

Per i giudici di legittimità continuare a mantenere i figli conviventi “sedicenti” non autonomi fa scattare anche una disparità di trattamento, ingiustificata e ingiustificabile, nei confronti dei figli coetanei che si sono resi autonomi perdendo poi tale condizione: solo per i primi permane, infatti, un obbligo di mantenimento mentre i secondi possono solo puntare agli diritto agli alimenti. Tutele del tutto attenuate dunque per chi si trascina stancamente negli studi per nulla proficui e lo stesso fa nella ricerca di un lavoro. «Il concetto di capacità lavorativa – si legge nella sentenza – intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato, si acquista con la maggiore età.

L’abuso del diritto

Quando la legge presuppone l’autonomia «ed attribuisce piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di voto). Poi naturalmente i tempi si allungano in caso di laurea. Ma per chi li dilata troppo la Cassazione parla chiaramente di divieto di «abuso del diritto»: il diritto al mantenimento del figlio non può sorgere «già abusivo» o «di mala fede».

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